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Nel luglio del 1938 cominciò la campagna antisemita in Italia. Il regime fascista, dopo la pubblicazione del manifesto della razza, a settembre aveva annunciato l’istituzione delle leggi razziali. Per Enrico Fermi diventava impossibile continuare a vivere in Italia. Da un lato per la salute della sua famiglia, sua moglie, Laura Capon era di origine ebraica, dall’altra per gli ostacoli che, ripetutamente, venivano presentati ai suoi lavori negli ultimi tempi.

Più o meno nello stesso periodo erano morti Corbino e Marconi, Fermi era, così, entrato in una sorta di isolamento scientifico incentivato dal regime. Qualche tempo prima Enrico Fermi era stato ospitato nei laboratori di Berkley e rimase affascinando dall’attrezzatura di cui disponevano gli scienziati. Invidiava la libertà nella quale venivano svolti i progetti scientifici.

Quando il 10 novembre arrivò la notizia che all’età di soli 37 anni avrebbe ricevuto il Premio Nobel, Enrico Fermi decise che dopo la cerimonia a Stoccolma non sarebbe più tornato in Italia. Erano, purtroppo, finiti i momenti dei Ragazzi di Via Panisperna, la guerra era prossima e Mussolini assecondava la follia di Hitler. Così, per evitare di mettere in pericolo la sua famiglia e di buttare via le proprie ricerche, Fermi decise di fuggire in America.

Alla premiazione, tenutasi a Stoccolma il 2 dicembre 1938, Enrico si recò con la moglie e i figli. Ricevette il premio indossando un semplice frac e non l’uniforme voluta dal regime. Non fece neanche il saluto fascista, come, invece, era imposto ai cittadini italiani. Fu questa la sua ribellione contro un potere politico che lo aveva costretto ad abbandonare Roma, la sua città.

Dopo la cerimonia Fermi si recò a Copenaghen da Bohr. Rimase lì qualche settimana, successivamente si imbarcò su un transatlantico diretto a New York, dove si stabilì in un primo momento per poter collaborare con la Columbia University.